Questo cammino ha portato alcune sorprese che in altri tempi avrebbero potuto scocciarmi ma che, in questo momento, mi fanno solo capire che è il cammino che decide la via, il dove e il quando partirò. Non io. Il 24 dicembre arrivo a Madrid e spero di ripartire subito per Leon. Ma è la vigilia e non c’è nessuna possibilità. Cerco subito un biglietto per la mattina dopo per Astorga. Ma quando arrivo in stazione scopro che non c’è nessun autobus in partenza perché è Natale. L’unica possibilità per lasciare Madrid è un blablacar, una macchina condivisa, che però va a Ponferrada, la sera. Il cammino ha deciso per me. Visto che la partenza è tardi ho un sacco di tempo libero e, non potendo camminare come avrei voluto, mi metto a leggere “La guida magica del Cammino di Santiago. Un viaggio alla ricerca della magia e del sacro nel cammino delle stelle”. In questo Natale senza i miei bimbi non cammino ma viaggio attraverso le parole di Francisco Gil Contrera.

Scrive che il cammino non è solo una pratica religiosa, una attività sportiva o una via culturale. È un cammino magico, spirituale, che ci trasforma. È un maestro che ci da la possibilità di connetterci con il nostro io più profondo, con la nostra ancestrale e dimenticata natura; che ci mette in connessione con una eco remota, con un mondo atavico pieno di coincidenze impossibili e magici segnali; che ci fa capire che il mondo è molto più straordinario di quello che ci fanno credere. Camminare 25 km al giorno ci insegna lezioni che non si possono imparare su un libro ma solo sperimentare: osservare, scoprire, sentire, vivere… ti porta in mezzo alla natura, ti sommerge in un silenzio e in una solitudine dove non ti puoi nascondere a te stesso. Ti porta a vivere una esperienza iniziatica, trasforma le tue zone d’ombra in luce. Un viaggio per superare se stessi, per diventare più saggi, più coscienti. È un incontro con chi siamo veramente. Ci spinge a vivere la vita in un modo diverso, più cosciente.
E visto che di tempo ne ho tanto leggo anche il libro di Natalia Ginzburg ‘Serena Cruz o la vera giustizia.”

L’autrice scrive questo libro perché sia ricordata la storia di Serena Cruz e perché sia conosciuta da chi non ne sanno nulla. ‘Lo scrivo per testimoniare solidarietà alle persone a cui sono stati strappati i bambini, che esse avevano fino a quel giorno amato e accudito. Per testimoniare solidarietà alle persone, genitori e bambini, che hanno visto, come Serena Cruz e i suoi primi genitori adottivi, distrutta in un attimo la tranquillità famigliare, traditi e calpestati gli affetti, e che acerbamente hanno sofferto devastazioni, separazioni e perdite’
Serena Cruz era una bambina filippina, molto malata, che era stata adottata da una famiglia italiana di Racconigi. Avevano perso un figlio, non potevano averne altri e volevano adottare una bambina filippina visto che avevano già adottato un bimbo della stessa nazionalità. Il tribunale di Torino però si accorge che c’era qualcosa che non andava nelle pratiche e decide di portare via la bambina, ormai diventata parte integrante della famiglia, per affidarla a un’altra famiglia affidataria.
Per capire meglio cosa è successo riporto le parole di una recensione scritta da Garboli, C., L’Indice 1990, n. 5
“C’è una scena che ci viene messa sotto gli occhi, nell’ultimo libro di Natalia Ginzburg, con pochi tratti essenziali. È una scena angosciosa, uno di quegli incubi che riempiono i nostri sogni e che, al mattino, ci rifiutiamo d’immaginare reali – una bambina viene strappata dalle braccia della madre che non può trattenerla. Eppure, gli occhi del mondo hanno visto questa scena tante volte. Essa si ripete da sempre. Nella realtà e nel nostro inconscio, questa scena è l’archetipo, il prototipo di tutte le violenze possibili e immaginabili. La sua virtuale ripetitività è proprio ciò che ce la fa apparire irreale, come se tutto quello che in essa c’è di terrificante fosse solo imputabile alla nostra fantasia e alla nostra volontà di drammatizzare. (…) Se questa scena si verifica, essa è certamente l’evento più angoscioso di cui un bambino di tre anni possa sentirsi protagonista.
Il 17 marzo 1989, una madre adottiva dice alla sua bambina che la condurrà all’asilo. Mentre delle assistenti sociali si occupano del fratello e lo chiudono in una stanza, la madre veste la bambina e le infila sulle spalle uno zainetto a forma d’orsacchiotto. La prende in collo e la porta nella comunità-alloggio della Provincia. Qui c’è un plotone di carabinieri. A un tratto la bambina capisce: piange e urla, e si aggrappa disperatamente alla madre. Le assistenti sociali la strappano dal collo della madre e la portano in un’altra stanza. Se ne sentiranno le urla per ore e ore. Alla madre viene detto di andarsene. Non rivedrà mai più la bambina. Al fratello vengono raccontate delle pietose bugie. Alla bambina vengono tolti orecchini, catenina, tutti i ricordi di casa. Le viene somministrato del Valium. Verrà affidata, non si sa dove e non si sa quando, ad altri genitori. È, di fatto, una desaparecida. Non se ne può e non se ne deve parlare. A più riprese, gli autori di questo bel trambusto chiedono all’opinione pubblica di non drammatizzare.
È difficile rinunciare a leggere questa scena in controluce. A Racconigi, il 17 marzo, non c’erano scarpe chiodate e non si sentivano abbaiare ordini in lingua straniera. Ma se si mettono insieme gli elementi del quadro – carabinieri, assistenti sociali, urla, sotterfugi, ansia di mettere tutto a tacere e di fornire dell’accaduto versioni riduttive e caramellose – viene fatto di pensare a una di quelle tetre irruzioni di passi marziali nella vita di ogni giorno, che nascono dalla più sciagurata delle convinzioni: la presunzione che si possa infliggere una sevizia a un bambino in nome di valori intoccabili e inappellabili. Si sa in quale strada si finisce, quando si ammette la liceità di fare del male in nome di principi superiori. Il nostro secolo non ci ha certo lesinato questo tipo di perversione.
Ma a Racconigi, il 17 marzo, non è stato consumato nessun complotto e nessun crimine. Un’azione disumana è stata compiuta in nome del benessere e del futuro di una bambina, e una sevizia è stata commessa in nome della legge e per fini umanitari. Come spiegarla? Che cosa può avere estirpato dalla testa dei giudici di un tribunale il più elementare buonsenso ?”
Andando avanti nella lettura del libro scopro inoltre che già negli anni novanta si dichiarava che i bambini stessero bene dopo che erano stati sradicati brutalmente dalle loro vite. Ecco un estratto del libro che parla proprio di questo aspetto: “Le parole del Tribunale, la plasticità dell’età, cioè la facilità con cui un bambino di pochi anni supera una perdita e se ne consola subito, erano secondo lo psicologo B. completamente erronee, ed erronee erano d’altronde agli occhi di tutti, perché tutti ormai sanno bene che quanto ci accade nella prima infanzia lo portiamo dolorosamente stampato nell’anima, consciamente o inconsciamente, per sempre.
«Serena sta meglio adesso» dichiararono uniti i giudici. Adesso? Nella comunità- alloggio dove era stata portata? Meglio che dalla famiglia? E come facevano a saperlo i giudici, se non l’avevano mai vista prima? Riportiamo uno stralcio della sentenza del 31 marzo. «Il professor A., per incarico dei ricorrenti, visitò Serena quando la bambina si trovava ancora presso la famiglia. Nella sua relazione egli afferma che la bambina presentava una serie impressionante di fobie (paura del treno, paura del campanello, la mania di lavarsi le mani, il suo sonno era disturbato da incubi, manifestava sudorazione e pianti notturni…)
«La psicologa e il medico del Tribunale, che hanno visitato Serena dopo il suo allontanamento dalla famiglia hanno riscontrato una netta diminuzione se non una scomparsa dei sintomi di cui sopra. La bambina fin dalla prima notte ha dormito tranquillamente, non ha paure, né tremiti, né incubi durante il sonno… – si alimenta abbondantemente, accettando cibi e bevande prima non graditi, dorme sonni prolungati e tranquilli, nell’ambiente in cui trovasi ha socializzato coni coetanei…»
Sta meglio, dissero i giudici, perché la famiglia aveva con lei un rapporto ansiogeno, impaurito, e pieno di sensi di colpa. Ammettiamo che i genitori adottivi avessero con lei un rapporto ansiogeno. Come è mai possibile che una bambina allevata in un rapporto ansiogeno, e con fobie e incubi e tremori, guarisca di colpo e magicamente appena allontanata da casa? Chi ci crede? E riguardo a tutti quei sonni «prolungati e tranquilli», come non pensare che l’abbiano imbottita di farmaci?
O i genitori avevano con lei un rapporto ansiogeno, e allora questo lascia tracce nel tempo e non svanisce nello spazio di poche ore. I danni di un rapporto ansiogeno, se ci sono stati, non guariscono così in fretta. O invece l’hanno tirata su bene, come ha detto la gente del paese che la vedeva ogni giorno, cercando di aiutarla e rassicurarla in tutte le difficoltà che aveva, e questo ha fatto di lei una bambina, nonostante le fobie e gl’incubi, però sostanzialmente forte e sana. Che la separazione dal fratello e dai genitori le abbia generato una devastazione nella mente e nell’anima, è sicuro. Non c’è bisogno di essere degli psicologi per capirlo.”