Ieri sera abbiamo mangiato tutti insieme nell’unico bar aperto. Pensavo che avremmo dovuto prenotare ma c’eravamo solo noi. Triacastela, che quest’estate era una esplosione di vita e locali, ora sembra un paese fantasma.
Nessun cammino può essere uguale.
Maria, una pellegrina italiana, ha deciso di spedire i suoi otto chili di bagaglio perché ha male a una gamba. Il sevizio di spedizione è attivo anche in inverno ma, visto che quasi nessuno lo usa, ora costa 25 euro a tappa e non 5 come in estate. Per fortuna io ho un bagaglio leggerissimo! Sono riuscita a lasciare a casa tantissime paure. La paura di farmi male e non avere le medicine (non mi serviranno ma nel caso le comprerò), la paura di avere freddo (in fondo siamo in Spagna non sull’Himalaya), la paura di bagnarmi le scarpe (un paio solo va benissimo!), la paura di non avere un completo elegante per la sera (siamo tutti Pellegrini vestiti da Pellegrini)… e così mentre io cammino leggera con i miei tre chiletti gli altri Pellegrini arrancano sotto il peso del loro zaino.
La regola del due (due pantaloni, due maglie etc) mi sembra perfetta ma a fine cammino rivedrò l’elenco che avevo preparato e magari toglierò ancora qualcosa. Le famose ghette per esempio… mai usate in estate e mai usate in inverno. Invece raccomando assolutamente i sopra pantaloni da pioggia. È stato un consiglio che mi ha dato l’editore prima della partenza e non so come avrei fatto senza. Ieri Emilio, un Pellegrino appena arrivato, ci diceva che li ha dimenticati e che è stato terribile camminare sotto la pioggia con i pantaloni bagnati. Io invece sono quasi a tenuta stagna!

Stanotte ho sognato Nadia, la mia vicina. Stavamo uscendo da casa con i nostri bastoncini blu per iniziare a camminare insieme verso Santiago. Io con i bastoncini da trekking, lei con con i suoi bastoncini che fin da quando è piccola la aiutano a camminare. Ecco quello che ha scritto sul mio primo cammino a Santiago.
Seguivo da casa con attenzione e trepidazione ogni tappa del suo cammino e gioivo e soffrivo insieme a lei come molti altri suoi amici, ma credo che nel mio caso avesse una valenza particolare nel profondo del mio cuore e non solo perché le voglio bene, da sempre. Ho una disabilità fisica che mi impedisce di deambulare per lunghi tratti, ed è stato come se attraverso la sua descrizione particolareggiata compissi anche io questo percorso insieme a lei almeno mentalmente, visto che fisicamente non potrò mai farlo!
Posso solo immaginare la fatica, la stanchezza delle gambe nel camminare, il caldo, i sacrifici nell’alzarsi presto al mattino alle prime luci dell’alba per raggiungere ogni giorno il punto tappa con mille avventure giornaliere. Ma io questo viaggio l’ho vissuto con lei, attraverso le sue parole…
Stupendo…
Grazie a Nadia inoltre anche tantissime persone che non potrebbero fare il cammino stanno leggendo le mie parole e io mi sento onorata di questo e anche un po’ responsabile. Farò del mio meglio per farvi camminare con me attraverso le mie parole.
Nadia ha l’età di mio fratello, la conosco da prima che nascesse ed è un po’ come una sorella per me. A volte per sbaglio la chiamo con il nome della mia bambina. Quando era piccola abbiamo passato tantissimi pomeriggi insieme. Nadia mi ha insegnato la pazienza: per lei anche gesti quotidiani come legarsi le scarpe o mettersi un paio di pantaloni sono una impresa e allo stesso tempo un successo ogni volta che ci riesce! Nonostante le sue difficoltà è riuscita a raggiungere tantissimi traguardi: guida la macchina, si è laureata in servizio sociale, fa tantissime attività e soprattutto sorride alla vita! Grazie per il tuo esempio Nadia! Tra l’altro ho anche scoperto che è una bravissima organizzatrice di eventi! In pochi minuti, dopo che le avevo detto che sarebbe stato bello organizzare una presentazione del libro a Dronero, l’evento era organizzato: ha chiamato il teatro, una giornalista, l’associazione Mai+Sole e in due minuti l’evento era pronto! Un evento stupendo! C’erano quasi 200 persone nel teatro quel giorno e quello che ho sentito è stato una unione di anime. L’anima non può essere contenuta dal corpo, va oltre e quello che io ho sentito quel giorno è che eravamo tutti uno, come un corpo unico che rideva, piangeva e si emozionava per le parole del libro. Sensazione stupenda..
Gli esseri umani
sono tutti parte di un unico organismo,
profondamente connesso
in tutte le sue parti,
ma per una strana malattia “neurologica o psichiatrica”,
ci siamo convinti che
“l’altro non è me perché è diverso”.
È per questo che quando qualcuno mi dice che noi dobbiamo provare rabbia, che noi dobbiamo odiare quelli che ci hanno fatto del male io dico di no, non ce la faccio. L’odio e la rabbia sono vibrazioni molto basse, creano divisione e guerre, e io non voglio. Preferisco la gentilezza e l’amore. Dall’odio nasce odio, dall’amore nasce amore diceva Gandhi.
Ecco quello che voglio è una rivoluzione gentile. E visto che dobbiamo essere il cambiamento che vogliamo vedere nel mondo, inizio da me. Quando in una intervista del Fatto Quotidiano hanno chiesto a Daniel Lumera, esperto degli studi sulla meditazione e degli effetti sulla salute della gentilezza, cosa ne pensava della guerra lui ha risposto così:
“In questi giorni la tentazione è quella di rispondere alla violenza con altra violenza, alla forza con la forza e all’odio con altro odio. Cadere in questa dinamica istintuale è estremamente semplice quanto pericoloso. D’altro lato, quando autentica, la gentilezza crea senso di appartenenza senza alcun bisogno di ricorrere a una comunicazione verbale violenta, di creare competizione o giocare sulla percezione di un nemico da eliminare. Ma soprattutto, chi comprende il potere della gentilezza non ha bisogno di far leva su istinti primari, paure e ferite emotive degli altri per conseguire i propri obiettivi. Nella gentilezza c’è anche fermezza, presenza e assertività, ma a prevalere è l’empatia, la capacità di risvegliare sentimenti di compassione e fratellanza. Essere ‘gentili’ quindi richiede e presuppone una nobiltà d’animo capace di esprimere quel senso di appartenenza fondato sul riconoscimento reciproco, sul rispetto e sulla cura. Questa nobiltà dovrebbe essere esplorata con più attenzione nell’educazione, nella sanità, nell’economia e nella politica, proprio come medicina preventiva e curativa del conflitto e della violenza. Stiamo vedendo tutti a cosa porta un modello evolutivo antropocentrico e patriarcale basato sulla competizione, che giustifica la violenza come principio autoaffermativo. La gentilezza è uno di quei valori che ci permette di comprendere e integrare gradualmente una visione biocentrica ed ecocentrica della vita fondata sull’interconnessione, sull’interdipendenza e sulla cooperazione”.
Spesso io e i miei bimbi prima di dormire ascoltavamo le meditazioni di Daniel: parlavano di amore, gentilezza e pace. Il mio piccolino lo chiamava il nostro amico Daniel, pensava che ci conoscesse visto che noi lo potevamo sentire. Era un momento magico. Prima c’era il momento del ringraziamento, poi leggevo loro le storie in modo teatrale facendo le vocine di tutti i personaggi e poi ascoltavamo il nostro amico Daniel. Ci voleva molto tempo prima che si addormentassero. Erano gli anni difficili in cui io e la mia famiglia chiedevamo aiuto per loro senza essere ascoltati. Anni di pianti, di incubi, di racconti che non avremmo voluto sentire. Forse anche per questo quando è arrivato il decreto dicendo che dovevo portarli in comunità perché se no ci sarebbe stato un prelevamento coatto, io li ho accompagnati. Non solo per evitare il trauma del prelevamento anche perché non ce la facevo più a vederli stare male… a sentire le loro richieste di aiuto senza poterli aiutare. Ho pensato che sarebbero stati al sicuro e con un ultimo estremo atto di amore li ho accompagnati alla comunità. Per salvarli ho dovuto perderli… E arriva il pianto. Avevo appena detto che in questo cammino io non stavo piangendo e c’è di nuovo dentro di me un pianto profondo e infinito. In fondo però il dolore va pianto…

Ma torniamo al cammino, stamattina c’è stato un dubbio sul tragitto da seguire visto che c’erano due itinerari possibili: uno corto e uno più lungo.
Samos o non Samos?
Ma ci sono 7 km in più!!!
Sì ma c’è un monastero meraviglioso!
Il gruppo si divide. Qualcuno passa dalla scorciatoia e qualcuno prosegue per Samos (anche se così allunghiamo di 7 km). Tra pioggia e salite mi chiedo perché l’ho fatto… anche mio papà che mi segue da casa mi aveva detto che era assurdo passare da Samos con questo tempo da lupi!
Ma poi lo vedo…

E penso solo che ne è valsa la pena. Vedere all’improvviso il monastero dopo ore di cammino nei boschi, mi lascia infatti senza fiato. Ho avuto la stessa sensazione quando sono stata in Messico e ho visto la piramide di Palenque. L’avevo scoperta da piccola in un libro e avevo deciso che un giorno l’avrei vista e vederla apparire davanti ai miei occhi mi aveva lasciato senza fiato. Una sensazione di meraviglia mista ad amore che mi fa pensare a quello che ha provato Stendhal durante la sua visita alla Basilica di Santa Croce a Firenze. Però a Samos è tutto chiuso e per poter mangiare dobbiamo proseguire ancora per tre km. Entriamo in un locale che sembra un bar ma quando avvisiamo il cameriere che vorremmo mangiare ci apre la porte su un incredibile ristorante e mangiamo un pranzo buonissimo vicino a un camino acceso. Potrebbe sembrare un evento banale ma a noi sembra un ennesimo regalo del cammino.. Dopo pranzo ricomincia a piovere tantissimo ma come ormai sapete camminare sotto la pioggia mi fa tornare bambina. L’elemento di questa parte del cammino è sicuramente l’acqua: ci sono tantissimi fiumi, piccole cascate, pozzanghere e tanta tanta pioggia. Sulle montagne l’elemento caratteristico era invece il vento con la sua forza imponente.
Mentre sono qua a pensare agli elementi della natura intravedo in una specie di cantina delle persone che stanno facendo degli insaccati. Non resisto alla curiosità e chiedo se posso entrare. Mi spiegano che stanno facendo il chorizo e come lo preparano seguendo la tradizione della loro famiglia. Le signore ci concedono anche una foto e ci danno il permesso di pubblicarla. Promettiamo che a Sarria mangeremo il chorizo e ci avviamo.

Ma Sarria non arriva mai! Pensiamo di essere a 2 km invece ne mancano ancora sette. Dovremmo accelerare per arrivare prima che faccia buio ma nel cammino vediamo una bellissima cascina che è anche una pensione per pellegrini. Visto che è tardi vorremmo ripartire subito ma la hospitalera vedendoci tutti bagnati ci obbliga gentilmente a sederci con lei vicino al fuoco per asciugarci un po’…come avremmo potuto dirle di no? Mettiamo ad asciugare guanti e giacche e davanti a una tazza di caffè fumante rimaniamo incantati dai suoi racconti. Sembra un sogno… fuori pioggia e freddo e noi vicino al fuoco ad ascoltare racconti sul cammino. Uno in particolare però ci rimarrà nella mia memoria per sempre. Ci racconta di quando doveva venire a dormire da lei una coppia con il figlio. Prima dell’arrivo però la signora della prenotazione chiama dicendo che suo figlio sarebbe arrivato il giorno dopo e che quindi quella notte dormiranno nella pensione solo lei e il marito. L’arrivo del figlio però non arriverà mai, arriva invece una telefonata per avvisare che è morto: stava camminando, non aveva nessun problema di salute, aveva 35 anni e si è accasciato senza vita. La sera prima i genitori erano felici e spensierati nella pensione, ignari di quello che sarebbe successo e il giorno dopo la loro vita sarebbe rimasta segnata da una ferita eterna.
Secondo Brian Weiss la morte non è mai casuale e quando muoiono bambini o ragazzi giovani ci viene data l’opportunità di imparare lezioni importanti. Sono dei maestri che ci insegnano quali sono i valori della vita, le gerarchie delle cose e, soprattutto, cos’è l’amore. Sostiene che le lezioni più importanti scaturiscono dai momenti più duri.
In questo caso però è Dio che l’ha chiamato al cielo… perché far vivere ai miei bambini un ‘lutto’ così grave sradicandoli da un giorno all’altro dalla loro vita?
Che nessuno separi ciò che Dio ha unito.